Giugno 9, 2021In Approfondimenti

Introduzione

Possiamo facilmente immaginare come le pandemie siano eventi che possono avere un impatto sulla vita delle persone e delle comunità. Oltre che agli aspetti più direttamente connessi all’infezione e al rischio di contrarla, le pandemie si accompagnano a una serie di problematiche “corollarie”, che possono variare a seconda di diverse variabili, quali le caratteristiche della pandemia stessa, le misure di contenimento che vengono messe in atto e le specifiche condizioni in cui le persone si trovavano a vivere già prima dell’epidemia. Come abbiamo visto, le necessarie misure di tutela della salute e contenimento del contagio possono prevedere, ad esempio, dei periodi di lockdown, con i conseguenti cambiamenti nello stile di vita e nelle possibilità di movimento e di contatto sociale. Tutto ciò può avere risvolti come la perdita (o il rischio di perdita) del lavoro, una precarizzazione della condizione lavorativa, modificazioni nelle modalità di lavoro o, per bambini e ragazzi, di fare vita scolastica, e varie situazioni personali e/o familiari di difficile gestione, come il dover conciliare lo smart working con l’occuparsi di figli piccoli in casa. Si tratta di una gran quantità di situazioni estremamente varie, che possono combinarsi nella vita di individui e famiglie in modi altrettanto vari e che possono essere vissute da ciascuno in modi molto diversi.

Possiamo ancora facilmente immaginare come una pandemia possa quindi portare con sé anche un impatto sul benessere psicologico e sulla salute mentale degli individui, come hanno notato diversi Autori (1) (2) (3) (4). D’altro canto, la grande varietà delle situazioni più sopra richiamata credo renda improprio il fare delle generalizzazioni eccessive, così come credo sia non corretto l’assumere a priori che la “pandemia” sia per ciascuno e in ogni caso evento traumagenico in sé. Eventuali problematiche o disagio psicologici potrebbero infatti essere legati piuttosto ad alcune conseguenze della pandemia: le preoccupazioni economiche legate alla perdita o riduzione dell’attività lavorativa, i cambiamenti nelle abitudini di vita, il disagio legato alla lunga permanenza in casa (magari in situazioni non piacevoli o francamente disfunzionali), la presenza in casa di genitori anziani, ma anche l’aver subito lutti a causa del Coronavirus, l’essere stati ammalati gravemente, l’aver svolto una professione sanitaria a diretto contatto con le persone malate di Covid-19 (situazioni, queste ultime, che meriterebbero un discorso a parte). Tutta questa varietà non consente una generalizzazione, sia perché le diverse condizioni non sono distribuite uniformemente nella popolazione (non tutti le hanno vissute tutte), sia perché singoli e famiglie ne possono essere stati toccati in maniera diversa, anche a seconda delle loro condizioni di vita pre-pandemica.

Le ripercussioni sulla salute mentale delle persone e sul loro benessere psicologico è verosimile che siano mediate dagli effetti della pandemia su vari fattori di rischio, come le disuguaglianze socioeconomiche, la povertà, la disoccupazione, l’inattività fisica, l’isolamento sociale (4) (5).

Si dovrebbe inoltre considerare che la variabilità riscontrabile nell’impatto, anche psicologico, che la situazione attuale può avere su individui e famiglie è accresciuta, oltre che dalla presenza di fattori di rischio, anche dall’esistenza di “fattori protettivi” (ad esempio, l’essere in buona salute fisica) e dalla possibilità di mettere in atto le cosiddette “strategie di coping”, cioè comportamenti utili a far fronte allo stress legato a una situazione come quella che stiamo vivendo: tra di esse, mantenere la cura del proprio corpo, fare esercizio fisico, mangiare e dormire in modo regolare e corretto, mantenere i contatti con le persone care (nei modi possibili, ad esempio tramite le tecnologie) (4) (6).

Detto questo, voglio fare una premessa: quello che leggerete in questo articolo non vuole suggerire che la pandemia con le sue implicazioni, come la Didattica A Distanza (DAD) o la riduzione dei contatti sociali, non possano essere state accompagnate da una serie di problematiche e difficoltà per le persone in generale e per bambini e adolescenti in particolare (al riguardo, si possono leggere interessanti contributi, a carattere specialistico o anche più divulgativo, come ad esempio: (1), (7), (8) (9)). Ma non vuole neppure dare per scontato il contrario.


La necessità di restituire complessità al discorso

Questo articolo vuole provare a sollevare argomenti e ragionamenti, con il fine di superare la tendenza a dividersi in “fazioni” sostenitrici di certezze opposte (del tipo “pro-DAD”/“no-DAD”). Vuole anche tentare di “complessificare” un po’ un discorso molto vasto, che spesso mi sembra venga trattato in modo semplificato e indistinto, probabilmente anche a causa della brevità richiesta di solito da articoli, post, interviste o altri tipi di interventi mediati dai mass media e dai social. Ma la brevità è spesso cattiva compagna dell’analisi di fenomeni complessi.

Quando parlo di “complessificare” il discorso mi riferisco a diverse cose. Tra esse, la necessità di superare ragionamenti deterministici e del tipo “tutto-o-nulla”: per esempio, se in generale sono aumentate, in questo periodo, sensazioni di tristezza o disagio o stress, questo non dovrebbe portare a parlare automaticamente di problemi psichici o disturbi mentali. Tristezza, frustrazione, rabbia e percezione di stress possono essere una normale reazione a un evento che ha, in modi diversi, sconvolto le nostre vite. Considerare – come spesso ho visto fare – la pandemia come un evento necessariamente traumatico che certamente porta o porterà a effetti psicopatologici credo sia un errore (cosa diversa – e con la quale concordo – è sollevare l’attenzione pubblica e politica verso il tema della salute mentale, spesso poco considerato se non addirittura ignorato, anche evidenziando le criticità e urgenze che questa situazione ha messo in evidenza).

In questo periodo ci sono stati dei tentativi di studiare l’impatto psicologico della pandemia, ma bisogna considerare che è molto difficile condurre degli studi scientifici (scientificamente validi e attendibili) su un fenomeno complesso come quello che stiamo vivendo e in cui le variabili in gioco, come visto, sono numerosissime (per approfondire, vedere qui). E allora “complessificare” il discorso per me significa anche avere a mente la necessità di contestualizzare e relativizzare certi risultati e conclusioni delle ricerche così come le osservazioni fatte da singoli professionisti o servizi di salute mentale a partire dalla loro esperienza clinica, la cui rilevanza come spunto per avanzare ipotesi e discussioni è secondo me molto grande, ma che non può essere trattata come dato sufficiente da cui trarre conclusioni generali (leggere qui). Significa accettare quella quota di incertezza e indefinitezza che è insita nel fenomeno in questione, tanto più se consideriamo che in esso siamo ancora immersi e che l’osservatore è parte del fenomeno osservato. Significa considerare l’influenza che sistemi di convinzioni, credenze e valori possono aver avuto sulla costruzione dell’opinione che ciascuno (anche gli specialisti o i clinici) si è fatto della pandemia e delle sue implicazioni. Significa anche reinserire l’analisi di un fenomeno più specifico (come l’impatto della DAD) entro il suo più complesso e ampio contesto.

“Complessificare” per me significa anche operare delle distinzioni necessarie nei nostri ragionamenti sul tema: stiamo parlando dell’impatto psicologico della pandemia in sé, intesa come evento collettivo traumatico e allarmante? Stiamo parlando degli effetti delle conseguenze (misure di contenimento) della pandemia su come funzionano le famiglie e anche, più in generale, la società? Stiamo parlando degli effetti del lockdown e dell’isolamento sociale? In questo caso, possiamo sostenere con certezza che ciò che eventualmente osserviamo in termini di disagio o problematiche psicologiche sia legato all’isolamento sociale, o potrebbe essere invece connesso con la più estesa ed esclusiva permanenza nell’ambiente familiare o con altri fattori ancora? Stiamo parlando delle conseguenze della pandemia sulla scuola (DAD) e di come il nuovo modo di fare scuola e vita scolastica abbia potuto impattare su bambini e ragazzi? E in quest’ultimo caso, parliamo degli effetti potenziali sull’apprendimento o sul benessere psicologico? Mettere tutto nello stesso calderone non è una buona strategia per capire qualcosa della situazione e dalla confusione non viene generalmente nulla di buono.


Riflessioni su didattica a distanza e narrazione della didattica a distanza

Premessa

Tutti in questo periodo hanno discusso su qualsiasi mezzo di comunicazione della pandemia nelle sue varie declinazioni, inclusa quella degli aspetti psicologici in essa implicati. Oltre al fiorire di letteratura scientifica in materia, c’è stato e c’è un brulicare di interventi sul tema, da parte non solo e non tanto di professionisti della salute mentale (la cui presenza sui mezzi di comunicazione tradizionali – televisione, radio, quotidiani – è in realtà purtroppo molto scarsa) ma anche e soprattutto di giornalisti, opinionisti vari o altre figure, su riviste non specialistiche, quotidiani, trasmissioni tv, blog, siti web e pagine social. Altrettanto si è detto e si è scritto sull’impatto psicologico di pandemia, lockdown e didattica a distanza (DAD) su bambini e adolescenti. Se, da un lato, questo può essere visto come un fatto positivo, perché testimonia l’attenzione degli esperti e dei media verso la situazione attuale e verso un tema in genere molto trascurato come quello del benessere psicologico, dall’altro bisogna considerare che non sempre si tratta di “prodotti di qualità” (per approfondire, leggere qui).

In tutto questo parlare su mass media e social media, si possono notare dei modi dominanti, o quantomeno largamente diffusi, di descrivere e narrare la pandemia e, per quello che qui ci interessa, il lockdown e la DAD e il loro impatto psicologico su bambini e adolescenti. Di seguito cercherò di esporre alcune riflessioni su quest’ultimo tema.

In riferimento alla DAD, non ho le competenze per sostenere che si sarebbe potuta evitare l’interruzione della scuola in presenza (viste le tante problematiche connesse, come la questione dei trasporti, delle aule sovraffollate, della necessità di un’elevata possibilità di tracciamento dei casi, nei fatti ben presto “saltato”, ecc.). Non ho neppure le competenze per sostenere che si potesse effettivamente fare qualcosa per ovviare a inconvenienti quali l’eccessiva numerosità delle classi o gli spazi ridotti delle aule: provvedimenti certo auspicabili, ma non so se effettivamente realizzabili, per di più in pochi mesi, dal punto di vista degli investimenti economici e logistici che avrebbero richiesto. Nelle riflessioni che seguono, parto quindi dal presupposto che essa sia stata una misura necessaria, date le condizioni.

Punti di vista

Tom Sawyer, personaggio ideato dallo scrittore Mark Twain, un sabato pomeriggio si ritrova per punizione a imbiancare un grande steccato. Si sente tormentato non tanto dall’idea di dover sbrigare questo lavoro, quanto piuttosto da quella di dover subire le prese in giro dei suoi compagni per il fatto che lui debba lavorare. Ad un certo punto, passa di lì Ben, il ragazzo che teme di più per le sue canzonature, e i due iniziano a parlare:

“Ehi, vecchio, un po’ di lavori forzati, vero?”.

“Oh, sei tu, Beh? Non m’ero neppure accorto che c’eri…”.

“Senti, io vado a nuotare al fiume, adesso. Non ti piacerebbe venirci anche tu? Ma forse tu preferisci lavorare, vero? Ma sicuro che lo preferisci…”.

Tom fissò il ragazzo per un istante, poi chiese: “Cos’è che chiami lavorare?”.

“Be’, quello che fai adesso, non è un lavoro?”.

Tom riprese il pennello e rispose con molta indifferenza:

“Be’, in un certo senso lo è, e in un certo senso non lo è. Quello che so di positivo è che a Tom Sawyer gli piace”.

“Che storia vuoi darmi da bere? Forse che ti diverti a far l’imbianchino?”.

Il pennello continuò imperterrito.

“Se mi diverto? Be’, non riesco a capire perché non dovrei divertirmi. Forse che uno steccato da imbiancare lo trovano tutti, ogni giorno?”.

L’osservazione presentava il lavoro in una nuova visuale.

Ben smise di mordicchiare la mela. Tom passò con estrema cura il pennello in su e in giù, poi si ritrasse a osservare l’effetto, diede un colpetto qui, un colpetto là, ma non pareva ancora soddisfatto. Ben osservava ogni movimento, e si interessava sempre più, si sentiva sempre più attratto da quel lavoro. Improvvisamente disse: “Senti, Tom, lasciami imbiancare un poco anche a me”.

(M. Twain, Tom Sawyer Huckleberry Finn, trad. it. E. Giachino, Torino, Einaudi, 1963, pp. 14-5, citato in Watzlawick, Weakland, Fisch, 1973, pp. 101-2 tr. it.) (10)

Questo dialogo tra Tom e Ben, ripreso da Watzlawick, Weakland e Fisch nel noto testo Change (10) a proposito di quella che gli Autori definiscono “la sottile arte della ristrutturazione”, mostra bene come possano esistere punti di vista diversi dai quali osservare le cose. Un modo nuovo di guardare la realtà non cambia i fatti, ma muta il significato che la persona vi assegna.

Se adottiamo questa prospettiva, possiamo dire che una stessa “realtà” può essere descritta e anche esperita in modi diversi, a seconda del significato che noi le attribuiamo. Questi modi hanno delle conseguenze “concrete”. Ad esempio, il nostro Tom, descrivendo la sua situazione non come un faticoso lavoro e una punizione, ma come una cosa particolare, interessante e divertente da fare, era riuscito a provocare diversi cambiamenti in quella che aveva tutta l’aria di essere per lui una situazione penosa: i suoi compagni, infatti, vedendo ora quella situazione come attraente, avevano voluto svolgere parte del suo lavoro, tanto da essere addirittura disposti a pagarlo affinché concedesse loro questo privilegio. Tom era così riuscito a faticare meno del previsto e anche a guadagnare del denaro, oltre al fatto che la sua ridefinizione della situazione lo aveva portato a uscire dalla spiacevole e temuta condizione dell’essere oggetto di scherno.

Questa potrebbe sembrare una soluzione fantasiosa o un’astuta strategia ma, se ci pensiamo bene, tutti noi abbiamo chissà quante volte sperimentato il fatto che una certa situazione, che ha destato in noi molta preoccupazione in un certo periodo, ci ha lasciati quasi indifferenti in un altro momento della nostra vita; similmente, ci sarà certamente capitato di notare di essere estremamente ansiosi per un evento, mentre chi ci era vicino mostrava di fronte ad esso una reazione completamente diversa. Questo fatto può avere diverse spiegazioni: può essere che, banalmente, le altre componenti della situazione fossero differenti da un momento all’altro o per persone diverse. Ad ogni modo, un’altra spiegazione possibile può essere legata al diverso significato che noi e gli altri, o noi stessi in momenti diversi, abbiamo attribuito a quegli eventi e al particolare punto di vista dal quale li abbiamo osservati: queste sembrano essere quindi cose che meritano un grande interesse da parte nostra. “Non sono le cose in se stesse a preoccuparci, ma le opinioni che ci facciamo di esse”, disse il filosofo greco Epittèto nel I secolo d. C., con una frase rimasta famosa fino ai giorni nostri.

Ma cosa c’entra tutto questo discorso con la DAD?

Un aspetto che mi interessa qui approfondire riguarda come la didattica a distanza sia presente e “viva” nei nostri discorsi. Per quanto riguarda in generale le misure di contenimento della pandemia, tralasciando esempi di stampo “complottista” (del tipo “Ci vogliono isolare”, “E’ una dittatura sanitaria”, e simili), vorrei qui concentrarmi su alcune delle espressioni che più frequentemente mi sembra siano state utilizzate, non solo nelle conversazioni private, ma anche sui mass media e sui profili social di personalità pubbliche, con l’effetto di larga e rapida propagazione che possiamo immaginare: “Ci chiudono di nuovo”, “Ci tengono chiusi”, “Ci riaprono” (con le varianti “Chiudono i cittadini”, ecc.). Espressioni di questo tipo – secondo il mio punto di vista –  rispecchiano e rischiano di evocare, da un lato, l’idea di un’imposizione da parte di alcuni su altri, dall’altro, vittimizzazione e passività dei cittadini. Non c’è traccia, in queste espressioni, di concetti quali l’assunzione di responsabilità o l’agire consapevole per il bene comune. A dire il vero, non c’è traccia di qualcosa che si avvicini all’azione, intesa nel senso proprio del termine: «l’agire, l’operare, in quanto espressione e manifestazione della volontà […]» o «potere o forza determinante […]. Più spesso di cose, capacità di produrre determinati effetti […]» (11). Queste accezioni sono assenti anche in altre espressioni frequenti, come “Siamo in clausura” o “Siamo in prigione/agli arresti domiciliari”, che fanno riferimento a una reclusione forzata, subita passivamente: una situazione di inerte stasi, che ben combacia con (rinfocolandolo?) quel senso di “sospensione del tempo” di cui si è molto parlato e che molti hanno indicato come uno degli “effetti collaterali” psicologici del periodo di lockdown. Un tempo che si percepisce come “sospeso” forse proprio perché – se rimaniamo entro questo ambito di discorso – sospeso è stato l’agire come l’ho qui inteso.

Se poi stringiamo l’obiettivo su bambini e adolescenti, spiccano espressioni e definizioni come “Generazione Covid”, “Generazione persa”, “Stiamo togliendo ai nostri figli la loro età e le sue esperienze”, “Ci siamo dimenticati dei nostri bambini e ragazzi”, “I giovani sono le vere vittime di tutto questo”: ancora una volta, a mio avviso possiamo rintracciare qui un’idea di passività e vittimizzazione. Il rischio è che in questo modo, pur magari mossi da un’intenzione benevola – quella di proteggere giovani e giovanissimi -, si contribuisca a creare (o co-creare) questo tipo di realtà per loro, li si ponga in una condizione di “atemporalità” (in cui tutto sembra perduto per sempre) e li si collochi entro una definizione totalizzante, come se la loro esistenza si esaurisse nelle privazioni di questo periodo, come se non ci fossero per loro altre esperienze possibili, come se non avessero anche da imparare da questa situazione.

Detto, quindi, che la DAD non è stata una condizione ideale e che essa ha avuto presumibilmente un impatto diverso (a livello sia emotivo che dell’apprendimento) a seconda delle più generali condizioni e specifiche situazioni su cui è ricaduta, è utile tutto ciò? Modi diversi di raccontare e definire questa “realtà” (dalla DAD alle misure di contenimento più in generale) avrebbero portato (e potrebbero portare) a qualcosa di differente, in termini di impatto psicologico, su bambini, adolescenti, ragazzi, sulle loro famiglie, sulle persone in generale? Potremmo ad esempio chiederci cosa sarebbe successo se tutti avessimo parlato della DAD come di un’opzione messa in campo per poter comunque continuare a fare scuola. Non una situazione ideale, ma neppure l’espressione di un rifiuto o di una negazione di diritti: un tentativo di esserci, pur con tanti limiti (sui quali – per inciso – sarebbe stato utile riflettere e lavorare in uno sforzo collettivo, collaborativo e condiviso, come argomenterò dopo).

Se si fosse parlato di tutti noi, compresi bambini e ragazzi, come di persone che si sono trovate a dover fronteggiare un evento nuovo e poderoso, trovando modi per affrontarlo, io credo che questo avrebbe potuto contribuire a sollecitare una visione di se stessi come di soggetti attivi, consapevoli, responsabili nei confronti di una situazione che, sebbene avversa, è pur sempre ciò con cui ci siamo trovati confrontati in questo periodo. Avrebbe potuto sollecitare una visione di se stessi come parte di una comunità che si attiva in risposta a un’avversità (cosa probabilmente, ma solo sotto alcuni aspetti, avvenuta durante il primo lockdown). Un’avversità, tra l’altro, che per sua stessa natura richiama il collettivo, nella sua dimensione di emergenza connessa alla minaccia e conseguente necessità di tutela della salute pubblica.

Io credo, quindi, che “narrazioni” (termine oggi molto in voga, anche nei mass media, ma di solito usato senza che se ne riconoscano le implicazioni) diverse avrebbero potuto  – e forse ancora potrebbero – consentire definizioni e “posizionamenti” diversi (e più utili e funzionali) delle persone nelle loro realtà. E questo avrebbe potuto – e forse ancora potrebbe – avere ripercussioni positive a livello dell’impatto emotivo/psicologico.

Prendendo il discorso da un’angolazione un po’ diversa, la mia impressione è che si sia in generale costruito un contesto di significato in cui l’unica definizione possibile (coerente con tale contesto) della condizione vissuta dai giovani con la DAD è quella che prevede una sua patologizzazione. Mi viene in mente quanto hanno scritto, in ambito completamente diverso, Luigi Boscolo e Paolo Bertrando (esprimendo un concetto condiviso da molti altri Autori) a proposito della diagnosi psichiatrica. Il presupposto dal quale partono sono i concetti della Cibernetica di Secondo Ordine e del Costruttivismo e l’idea di Humberto Maturana (12) che «la “realtà” emerga nel linguaggio attraverso il consenso» (Boscolo, Bertrando, 1996, p. 52: (13)):

Tornando a quel particolare gioco linguistico che è la diagnosi psichiatrica, ci preme sottolineare che essa porta alla reificazione e conseguente semplificazione di una realtà complessa. Oltretutto, una reificazione che a volte ha notevoli effetti pragmatici, anche perché una diagnosi, specialmente nei casi gravi, può introdurre un concetto di atemporalità. Nel senso che, una volta che sia stata pronunciata, tende a diventare un attributo consustanziale alla persona, che non può più liberarsene […]. In aggiunta, la diagnosi può tradursi in un concetto totalizzante, laddove la persona diventa la malattia e la malattia diventa la persona. (Ivi, pp. 52-3)

Gli Autori evidenziano quindi come la diagnosi psichiatrica possa essere vista non come un concetto da accettare in modo acritico, né come un qualcosa da combattere, ma come una delle “possibili punteggiature della realtà” (uno dei modi possibili di “leggere” una certa situazione). Da qui, la scelta di ricorrere a un linguaggio depatologizzante, che usi parole che evocano la presenza di competenze e risorse, e la preferenza per una logica che superi le dicotomie (ad esempio, tra normale e patologico, tra psichico e somatico, tra biologico e relazionale, ecc.).

Ancora, gli Autori affermano:

A volte ci viene chiesto, […], se crediamo alla patologia. Nelle nostre risposte, […], ci preme enfatizzare il concetto di “patologizzazione” come processo che si stabilisce nel tempo attraverso la comunicazione fra esperti, membri della famiglia, coetanei, servizi ecc., che viene ad acquisire il valore e gli effetti di un discorso dominante (Foucault, 1966) [(14)] nello specifico contesto cui il cliente è connesso. Tale discorso a volte finisce per diventare totalizzante e vivere quasi di vita propria, favorendo così più la persistenza del problema che la sua risoluzione [corsivo mio]. (Ivi, p. 54)

Con le dovute e ovvie differenze, credo che si potrebbe utilmente trasporre questo tipo di ragionamento al tema di cui qui discuto, anche per quanto riguarda il riferimento al contributo che la definizione della situazione può dare al mantenimento (o – aggiungo – all’esacerbazione) di un problema.

Non vorrei passare dal citare Autori di tale rilievo al cadere nella retorica e nella banalità, ma mi viene a volte da pensare che i ragazzi che oggi riteniamo non possano sopportare un periodo di lezioni online hanno la stessa età di quelli che, qualche decennio fa (e ancora oggi in altre parti del mondo), andavano a combattere e a volte a morire in guerra. E hanno la stessa età di altri che magari passano anni in ospedale a causa di gravi malattie. Credo quindi che, sempre ribadendo che certamente la DAD e la riduzione dei contatti sociali non costituiscono una situazione desiderabile, occorra ridimensionare un certo tipo di discorso su di essa e sui bambini e ragazzi che l’hanno vissuta, evitando che il giusto tentativo di sollevare l’attenzione pubblica verso situazioni di potenziale disagio si trasformi in atteggiamenti radicalizzati di iperprotettività e cecità di fronte alle tante risorse di cui bambini e ragazzi dispongono.

Nessuna “generazione Covid”, quindi, ma persone e sistemi (famiglie, classi di alunni) che stanno vivendo un periodo complesso e tendenzialmente difficile, ognuno con le sue particolarità e specificità di situazioni, storie di vita e condizioni preesistenti e attuali; ognuno con i suoi modi di organizzare i significati; ognuno con le sue fragilità e i suoi punti di forza. Il che – voglio ribadirlo – non significa che non siano emerse situazioni di sofferenza e disagio, di cui anzi occorre farsi carico e dalla considerazione delle quali sarebbe bene partire per accorgersi (e porvi rimedio) della scarsa attenzione data sino ad ora (anche prima della pandemia) alla salute psicologica, ai servizi che se ne occupano e alle condizioni che la favoriscono e predispongono.

Bambini e famiglie

Si può parlare dell’impatto della pandemia, dell’isolamento sociale, della DAD sui bambini e gli adolescenti, senza parlare delle loro famiglie?

Coerentemente con un’ottica sistemico-relazionale, possiamo vedere la famiglia come un sistema, cioè come un tutto diverso dalla semplice somma delle sue parti. «Un sistema può essere definito come un complesso di elementi interagenti» (von Bertalanffy, 1969, p. 97 tr. it. (15)). Questo significa che qualunque cambiamento in una parte del sistema causa un cambiamento in tutte le altre sue parti e in tutto il sistema (16).

Adottando questo punto di vista, il campo di osservazione si sposta dal singolo individuo all’individuo nel suo sistema o nei suoi sistemi di riferimento (in primis la famiglia, ma anche la scuola e non solo), ed è all’interno di essi che i comportamenti (inclusi i “sintomi”) acquistano significato. Questo non significa che la famiglia sia il solo sistema che si possa prendere in considerazione né che i comportamenti che osserviamo in un bambino (o, in generale, in un individuo) siano “causati” o siano “colpa” della sua famiglia. Queste sarebbero ulteriori semplificazioni, frutto di un pensiero lineare, che ci porterebbero fuori strada. Inoltre, le famiglie interagiscono con l’ambiente esterno, cioè con il più vasto sistema socio-culturale.

C’è un altro concetto che vorrei richiamare, e che forse può essere utile per comprendere l’impatto che eventi significativi possono avere in generale sulle famiglie: se osserviamo le famiglie nel tempo, vediamo come ognuna di esse incappi normalmente, nel corso della sua vita, nei cosiddetti “eventi critici” (17) (18) (che qui intendo non come sinonimo di “eventi traumatici”, ma nell’accezione riferita al ciclo di vita della famiglia). Alcuni di essi (detti “normativi”) sono prevedibili e sono considerati normali, perché la maggior parte delle famiglie li vive (tra di essi, il matrimonio, la nascita di un figlio, l’allontanamento dei figli divenuti adulti); altri, invece, come una malattia, una morte prematura, la perdita del lavoro da parte di un membro, sono imprevedibili e inattesi (e sono detti “paranormativi”). L’aggettivo “critico”, e quindi il riferimento alla “crisi”, sta ad indicare non un qualcosa di negativo, ma il carattere di perturbazione e cambiamento che connota tali eventi. Essi innescano, infatti, una prima fase di rottura rispetto alle precedenti modalità di organizzazione e funzionamento della famiglia, ora non più adeguate. Quindi, la famiglia entra in una fase di transizione, che può portare a una destrutturazione del sistema oppure a una sua riorganizzazione. Dunque, se la famiglia non riesce a riorganizzarsi a seguito di un evento critico, rinegoziando funzioni e ruoli al suo interno e modificando le sue modalità di funzionamento, il suo stile relazionale, la sua organizzazione, non riuscirà a superare la “crisi” e andrà incontro a una situazione di “blocco” del suo processo evolutivo e di disagio, che potrebbero manifestarsi nel sintomo di uno o più membri (17). Sintomo che, se da una parte si configura come espressione del disagio, dall’altra può essere visto anche come richiesta di cambiamento o tentativo di indurlo.

Quando più eventi critici si presentano insieme, generalmente aumentano le difficoltà di gestione ed eventuale riorganizzazione del sistema familiare di fronte ad essi. Un ulteriore elemento di difficoltà può essere dato dall’eventuale carattere di imprevedibilità degli eventi critici: proprio perché non prevedibili, non si possiede culturalmente uno “schema operativo su come affrontarli” (17).

Come evidenziato da diversi Autori (tra cui Malagoli Togliatti e Lubrano Lavadera (17) e Guidano (19), che affronta il tema da un punto di vista individuale e secondo un approccio cognitivo-sistemico), un evento non è critico in sé: questa qualità viene dal significato che la persona e la famiglia gli attribuiscono. Un significato che dipende da diversi fattori, come le aspettative (individuali, familiari e sociali) circa l’ambito nel quale l’evento ricade e le regole, le credenze, gli stereotipi e i valori del proprio contesto familiare e socio-culturale in riferimento ad esso. Per comprendere meglio quanto vado dicendo, pensiamo a eventi come il divorzio o l’avere un figlio al di fuori del matrimonio: possiamo ben immaginare come il significato attribuito a tali eventi possa variare a seconda del contesto familiare e socio-culturale di appartenenza. Questi esempi possono anche farci facilmente intuire come, a seconda di come l’evento viene significato e rappresentato (oltre che in rapporto alle risorse su cui la famiglia può contare per affrontarlo), il suo impatto sulla famiglia e i suoi membri potrà essere diverso.

«In un certo senso la definizione che la famiglia dà di un evento è parte della risposta e delle strategie adattive che essa mette in atto di fronte all’evento stesso [corsivo mio]» (Malagoli Togliatti, Lubrano Lavadera, p. 31: (17)). E in questo, anche se da una prospettiva diversa, in qualche modo torniamo all’importanza di come una situazione viene significata e definita.

Se accostiamo la pandemia a un qualcosa che ha innescato uno o più eventi critici per le famiglie, possiamo forse comprendere meglio l’impatto che alcune sue implicazioni possono aver avuto su di esse e possiamo anche forse dare ulteriore forza all’idea che questo impatto possa essere stato molto diverso da famiglia a famiglia. Dobbiamo però tenere presente che questo discorso, se da una parte può – secondo me – essere utile per la comprensione di alcuni aspetti del tema in questione, è al contempo riduttivo perché, per semplificare, non sto considerando qui la pandemia in un’ottica di psicologia dell’emergenza (su cui molto è stato già scritto); non la sto considerando come evento né come emergenza collettivi, nel cui ambito e nella cui evoluzione nel tempo vissuti e significati personali e familiari vanno presumibilmente a innestarsi.

Parlando in termini più generali, possiamo poi dire che ogni famiglia ha il suo modo di funzionare, di gestire l’emotività dei suoi membri e consentirne l’espressione, di dare spazio all’ascolto e al confronto, di organizzare spazi e tempi, di gestire ruoli e regole al suo interno, di porsi di fronte all’autonomia e alla differenziazione dei suoi membri, di tollerare momenti che richiedono maggiore vicinanza o maggiore distanza rispetto all’abituale, di vivere i legami emotivi interni, di gestire i rapporti con il mondo esterno. Ogni famiglia ha le sue modalità di avere a che fare con lo stress e di far fronte a eventi, interni o esterni, di particolare rilevanza, adattandosi più o meno efficacemente e funzionalmente a circostanze mutate, riorganizzandosi di fronte a situazioni perturbanti.

E’ possibile che anche queste caratteristiche e modalità di organizzazione e funzionamento familiari possano aver avuto una parte, anche a parità di altri fattori (come la situazione socio-economica, abitativa e lavorativa dei genitori), nella reazione messa in campo da ogni famiglia di fronte alla pandemia e alle sue conseguenze. Alcune famiglie possono aver potuto contare su proprie risorse preesistenti e aver avuto la capacità di adattarsi più flessibilmente alla situazione, alle perturbazioni e allo stress del momento; altre famiglie, più rigide, possono aver avuto difficoltà nel rimodulare, rispetto alle nuove circostanze e necessità, il proprio modo di funzionare e di comportarsi. E’ possibile che, sul versante opposto, anche famiglie già “caotiche” possano aver incontrato difficoltà in tal senso, disorientandosi e disorganizzandosi ulteriormente nella nuova situazione.

Scuola e DAD: qualche riflessione e qualche spunto per il futuro

Rispetto alla DAD e a come essa sia stata gestita e vissuta dai vari attori coinvolti (scuole, insegnanti, alunni, famiglie) si è detto tanto. Come ho già sostenuto, credo occorra tenere conto della grande varietà di situazioni intorno ad essa. In alcuni casi (e come mi sembra sia stato molto enfatizzato), condizioni di fragilità preesistente sembrano essersi aggravate, ed è stato spesso difficile portare avanti una didattica davvero inclusiva per alunni con problematiche di disabilità o connesse con difficoltà o disturbi dell’apprendimento. E’ anche vero che, in altri casi, nella pratica clinica sono state osservate, oltre alle ombre, anche degli aspetti positivi del “fenomeno DAD”: ad esempio, alcuni hanno notato come essa abbia a volte facilitato la collaborazione tra pari (proprio grazie all’assenza del corpo, spesso vissuto con senso di inadeguatezza) e favorito l’inclusione di ragazzini che precedentemente mostravano grandi difficoltà a integrarsi nel gruppo, avendo consentito ai ragazzi di percepirsi come uguali agli altri (20).

La DAD costituisce in definitiva una preziosa occasione di riflessione sulle nostre idee e pratiche consuete riguardo alla didattica e all’inclusione scolastica. Un’occasione che non dovrebbe andare perduta. Ovviamente tutti speriamo che il prossimo anno la scuola possa tornare normalmente e stabilmente in presenza. Ad ogni modo, che si torni o no continuativamente in aula, penso che sarebbe importante fare tesoro di alcune cose che questo periodo ha consentito di apprendere e che mi portano a ipotizzare che molti dei limiti della DAD sono stati piuttosto limiti del modo in cui la DAD è stata a volte gestita (anche comprensibilmente, dato il suo carattere di novità) o esacerbazioni, anche in questo caso, di problematiche preesistenti riguardanti la didattica e l’inclusione scolastica.

Probabilmente, a volte – ma qui riferisco ciò che ho osservato in alcuni casi, senza alcuna pretesa che il mio discorso sia generalizzabile – le scuole hanno dato molta importanza ad aspetti ritenuti “concreti”, come la formazione dei docenti rispetto all’uso delle tecnologie e delle piattaforme digitali che dovevano essere utilizzate per la DAD; poca importanza si è data, invece, alla formazione e riflessione su metodologie e modalità idonee a favorire l’inclusione di tutti e a sostenere l’attenzione e il coinvolgimento degli alunni, che sembrano essere stati in generale resi più difficoltosi dalla modalità online. Insomma, far traslocare i consueti modi di fare lezione dall’aula materiale all’aula virtuale non è una buona strategia. L’aver sperimentato nuove modalità didattiche (o, ove non sia stato fatto, la riflessione su modalità possibili) può essere un tesoro da sfruttare nel futuro, anche nella didattica in presenza, che spesso non è stata scevra di problemi.

L’Istituto Superiore di Sanità, nel maggio 2020 ha sostenuto:

dal punto di vista psico-pedagogico, se ben gestiti e con attenzione mirata ai bisogni di ciascuna età, i limiti necessari per la prevenzione del contagio possono trasformarsi in importanti occasioni di crescita […]. In generale, l’attenzione alle norme di prevenzione del contagio in ambito educativo e didattico non deve essere gestita come un insieme di divieti, ma come una parte integrante del progetto pedagogico: aiuta il bambino e l’adolescente a fare proprio il concetto di responsabilità collettiva, la relazione tra individuo e comunità, in maniera adeguata all’età e focalizzata su cos’altro e come si può fare rispetto a prima, come si possono trasformare le modalità di relazione e le attività per mantenere comunque gli elementi affettivi e i contenuti. (Rapporto ISS COVID-19, n. 43/2020, 31 maggio 2020, p. 16: (21))

Questo discorso, sebbene maggiormente riferito alla didattica in presenza in tempo di pandemia, credo contenga spunti molto interessanti di riflessione anche per la gestione della DAD: come possano essere rintracciate, proprio nei limiti della situazione e nelle norme da seguire, delle potenzialità e delle risorse; come si possano considerare le limitazioni di questo difficile periodo come occasioni di apprendimento; come l’attenzione alle norme di prevenzione del contagio possa essere vista e gestita come occasione per “fare proprio il concetto di responsabilità collettiva” (posizione ben lontana dalle lamentele dei tanti che hanno sostenuto che questa situazione potesse “inculcare” o sollecitare nei bambini il terrore del contagio o comportamenti fobico-ossessivi); come ci si possa focalizzare “su cos’altro e come si può fare rispetto a prima” (anziché su ciò che i bambini e i ragazzi hanno perso – aggiungerei io). Il che mi riporta al cosa si può fare con ciò che si ha, più sopra richiamato. Si tratta di riflessioni che credo siano utili anche in vista del prossimo anno, nel caso molto probabile in cui, tornati in presenza, occorra mantenere le misure di distanziamento e igiene.


Conclusioni

All’inizio dell’emergenza sanitaria, si è spesso sentito dire che eravamo “tutti sulla stessa barca”. Poi qualcuno ha fatto (giustamente) notare quanto questa affermazione fosse priva di senso, dato che individui e famiglie vivono situazioni assai diversificate tra loro: nel sostenere ciò, si è fatto più che altro riferimento a condizioni “materiali”, come l’ampiezza dell’abitazione e il numero di coabitanti, le possibilità economiche familiari, il grado di stabilità lavorativa, l’accesso alle risorse tecnologiche. Alcuni hanno poi messo in luce come ci potessero inoltre essere situazioni familiari più serene, in cui la convivenza poteva risultare più tollerabile, e altre meno, in cui la coabitazione poteva risultare particolarmente stressante o addirittura pericolosa, come nei casi di violenza domestica.

Possiamo però pensare che presumibilmente tanti altri fattori, tra cui quelli a cui ho accennato nel corso dell’articolo (e ancora altri), abbiano contribuito a rendere estremamente vario e diversificato l’impatto psicologico che le implicazioni della pandemia possono aver avuto su individui e famiglie, e che questo limiti ulteriormente la possibilità di operare delle generalizzazioni. Questo vale anche, secondo me, per quanto riguarda il possibile impatto psicologico della pandemia, del lockdown (con conseguente limitazione delle possibilità di contatto sociale esterno alla famiglia nucleare) e della didattica a distanza su bambini e adolescenti.

Ci sono dei motivi se sottolineo così tanto questo aspetto della questione. Prima di tutto, capire quale sia il problema è fondamentale per cercare le giuste soluzioni. In secondo luogo, restituire complessità al dibattito può essere un buon antidoto contro generalizzazioni e semplificazioni eccessive, che spesso riducono il confronto, anche pubblico, a uno scontro tra fazioni opposte. Ma di questo parlerò in un prossimo articolo.


Bibliografia

(1) Uccella S., De Grandis E., De Carli F., D’Apruzzo M., Siri L., Preiti D., Di Profio S., Rebora S., Cimellaro P., Biolcati Rinaldi A., Venturino C., Petralia P., Ramenghi L.A., Nobili L., “Impact of the COVID-19 Outbreak on the Behavior of Families in Italy: A Focus on Children and Adolescents”. Frontiers in Public Health, (2021), 9: 608358. doi: 10.3389/fpubh.2021.608358
https://www.frontiersin.org/article/10.3389/fpubh.2021.608358

(2) Sprang G., Silman M. “Posttraumatic stress disorder in parents and youth after health-related disasters”. Disaster Med Public Health Prep. (2013) 7:105–10. doi: 10.1017/dmp.2013.22
https://pubmed.ncbi.nlm.nih.gov/24618142/

(3) Office for National Statistics Personal and economic well-being in Great Britain: January 2021. Estimates looking across multiple sources for personal and economic well-being to understand the impact of the coronavirus (COVID-19) pandemic on people and households in Great Britain. Covers the period from March 2020 to December 2020
https://www.ons.gov.uk/peoplepopulationandcommunity/wellbeing/bulletins/personalandeconomicw
ellbeingintheuk/january2021#personal-well-being-and-expectations-for-the-future

(4) Estratto del webinar tenuto dal prof. Lino Nobili (neurofisiopatologo e neuropsichiatra infantile, Prof. Ordinario di Neuropsichiatria Infantile Università di Genova, Direttore della Neuropsichiatria Infantile dell’Ospedale G. Gaslini di Genova) per formazionecontinuainpsicologia.it: “L’impatto del COVID-19 sul comportamento di bambini, adolescenti e famiglie. Ricerca dell’IRCCS Giannina Gaslini di Genova”:
https://www.youtube.com/watch?v=N098JPPaIec

(5) Campion J., Javed A., Sartorius N., Marmot M. “Addressing the public mental health challenge of COVID-19”. Lancet Psychiatry. (2020) 7:657–9. doi: 10.1016/S2215-0366(20)30240-6
https://www.thelancet.com/journals/lanpsy/article/PIIS2215-0366(20)30240-6/fulltext

(6) World Health Organization, Mental health and psychosocial considerations during the COVID-19 outbreak, 18 March 2020. License: CC BY-NC-SA 3.0 IGO
https://apps.who.int/iris/handle/10665/331490

(7) Conti S., intervista a Camillo Loriedo (Presidente della Società Italiana di Psicoterapia e Direttore Scientifico e Didattico dell’Istituto Italiano di Psicoterapia Relazionale, nonché Founding President FIAP), “Salute mentale ai tempi del Covid”, moondo.info, 25/02/2021:
https://moondo.info/salute-mentale-ai-tempi-del-covid/

(8) Presentazione dell’indagine condotta dall’Istituto G. Gaslini di Genova sull’impatto psicologico e comportamentale della pandemia di Covid-19:
http://www.gaslini.org/wp-content/uploads/2020/06/Indagine-Irccs-Gaslini.pdf

(9) Gobbi B., intervista a Stefano Vicari (docente e primario di Neuropsichiatria infantile al Bambino Gesù di Roma), “Il neuropsichiatra: «Il Covid è stato un detonatore, tra i ragazzi è boom di ricoveri». La pandemia ha acuito fragilità che magari in altri periodi avrebbero “retto” avverte Stefano Vicari, docente e primario di Neuropsichiatria infantile al Bambino Gesù di Roma”, ilsole24ore.com, 20/04/2021:
https://www.ilsole24ore.com/art/il-neuropsichiatra-il-covid-e-stato-detonatore-i-ragazzi-e-boom-ricoveri-AEdWQOC

(10) Watzlawick P., Weakland J.H., Fisch R., Change, Principles of Problem Formation and Problem Solution, Norton, New York, 1973 [tr. it. Change. Sulla formazione e la soluzione dei problemi, Astrolabio, Roma, 1974].

(11) https://www.treccani.it/vocabolario/azione1/

(12) Maturana H. R., “Biologia della cognizione”, 1970, in Maturana H. R., Varela F. J., Autopoiesis and Cognition. The Realization of the Living, Reidel Publishing Company, Dordrecht, Holland, 1980 [tr. it. Autopoiesi e cognizione. La realizzazione del vivente, Marsilio, Venezia, 1985].

(13) Boscolo L., Bertrando P., Terapia sistemica individuale, Raffaello Cortina Editore, Milano, 1996.

(14) Foucault M., Les mots et les choses, Éditions Gallimard, Paris, 1966 [tr. it. Le parole e le cose, Rizzoli, Milano, 1967].

(15) Bertalanffy von L., General System Theory, copyright by Ludwig von Bertalanffy, 1969 [tr. it. Teoria generale dei sistemi. Fondamenti, sviluppo, applicazioni, Mondadori, Milano, 1983].

(16) Watzlawick P., Beavin J.H., Jackson Don D., Pragmatic of human communication. A study of interactional patterns, pathologies, and paradoxes, W.W. Norton & Co., Inc., New York, 1967 [tr. it. Pragmatica della comunicazione umana. Studio dei modelli interattivi, delle patologie e dei paradossi, Astrolabio-Ubaldini Editore, Roma, 1971].

(17) Malagoli Togliatti M., Lubrano Lavadera A., Dinamiche relazionali e ciclo di vita della famiglia, Il Mulino, Bologna, 2002.

(18) Loriedo C., Picardi A., Dalla teoria generale dei sistemi alla teoria dell’attaccamento. Percorsi e modelli della psicoterapia sistemico-relazionale, Franco Angeli, Milano, 2000.

(19) Guidano V. F., La complessità del Sé, Bollati Boringhieri, Torino, 1988.

(20) Webinar di Edizioni Centro Studi Erickson (moderato da Laura Pulici) con Stefano Benzoni (neuropsichiatra infantile, psicoterapeuta e consulente per la Fondazione IRCCS Ca’ Granda, Ospedale Maggiore Policlinico di Milano), “L’impatto della pandemia Covid-19 sulla salute mentale di bambini e ragazzi” (dal minuto 44 circa):
https://www.youtube.com/watch?v=_tMMMms_hFQ

(21) Istituto Superiore di Sanità, “Indicazioni ad interim per un appropriato sostegno della salute mentale nei minori di età durante la pandemia COVID 19”. Gruppo di lavoro ISS Salute mentale ed emergenza COVID-19, Rapporto ISS COVID-19, n. 43/2020, versione del 31 maggio 2020:
https://www.iss.it/documents/20126/0/Rapporto+ISS+COVID-19+43_2020.pdf/32ba5573-8107-647c-3434-f307dd7dcaee?t=1591875745289